Translate

Quante cose possono cambiare in pochi giorni



Alberto Pasolini Zanelli
Quante cose possono cambiare in pochi giorni in una campagna elettorale come quella americana, da sempre un po’ frenetica, ma quest’anno decisamente nevrotica. Le novità non durano mesi né settimane, al massimo un paio di giorni. E già al terzo la “polmonite” di Hillary Clinton non è più la capolista fra le notizie e la calamita delle previsioni. Come aveva promesso, la candidata democratica è ritornata sul palco dei comizi, ripetendo le sue promesse ma soprattutto trovando il tempo per annunciare e ribadire che “mi sento molto bene”. Ma i titoli, o meglio l’equivalente dei titoli nel ventunesimo secolo, quelli che si riducono a lampi sugli schermi, hanno già riportato a protagonista Donald Trump. E non perché egli abbia fornito, a richiesta generale, un ritratto della propria salute: pressione alta, elevato colesterolo, insomma la “pagella” di un “uomo qualunque” di 70 anni. Non per questo si parla di lui, ma per i sondaggi, che offrono quella che per i più è ancora una sorpresa, ma per altri una conferma. Il candidato repubblicano cresce nelle simpatie degli americani, la sua avversaria democratica cala. Dice il sondaggio del New York Times che Hillary è ancora in testa, ma con il 46 per cento contro il 44 per cento di Trump. Quello del Los Angeles Times dà invece il “sorpasso” per compiuto e consolidato: Trump 47, Clinton 41.
Più importanti le cifre che giungono dagli Stati “chiave”, quelli che di solito decidono le gare presidenziali. Sono essenzialmente due: la Florida e l’Ohio. Dice la Storia che in tempi recenti nessun candidato repubblicano ha vinto senza l’Ohio. Solo Obama avrebbe potuto farne a meno, ma comunque se lo è messo in tasca in entrambe le sue scalate alla Casa Bianca. Per i democratici è naturalmente il contrario. John Kerry sarebbe diventato presidente nel 2004 se solo avesse tirato fuori trenta o quarantamila voti in più in Ohio, che andarono invece a George W. Bush e lo incoronarono. Quattro anni prima ad Albert Gore toccò la stessa sorte in Florida: Bush prevalse per una manciata di voti. Oggi Donald Trump è in testa in Florida con il 47 per centro contro il 44 della Clinton e in Ohio con il 46 per cento contro il 41. Lo spostamento di voti, modesto per ora in America, è invece cospicuo e rapido in questi due Stati così lontani geograficamente e come storia politica, tradizionalmente repubblicano l’Ohio, sudista e democratica la Florida.
Nel 2016, però, essi hanno qualcosa in comune, un dato importante: sono entrambi in declino economico e i loro abitanti e dunque elettori sentono particolarmente il disagio di quella che non è proprio una recessione nel suo complesso, ma è avvertita come tale da alcuni strati sociali, i redditi più bassi e il ceto medio. Le statistiche dicono la stessa cosa che ora i sondaggi propongono. Lo sviluppo economico dell’ultimo decennio ha accentuato le diseguaglianze di reddito e quindi di umore. A soffrirne sono soprattutto elettori tradizionalmente democratici, che hanno bisogno di essere davvero molto arrabbiati per considerare di votare dall’altra parte. Accadde per esempio nel 1980, quando si formò un movimento che prese il nome di Reagan’s Democrats. Non erano diventati repubblicani, ma avrebbero votato per il loro candidato. Non solo in Ohio e in Florida: Reagan vinse nel 1980 in 46 Stati su cinquanta e fu rieletto nel 1984 in 49. Non è più riuscito nessuno né tanto meno potrà riuscire Donald Trump. Potrà però bastargli per avvicinarsi a quella che sarebbe la grande sorpresa del 2016. Uno dei motivi è che questo candidato eterogeneo, estraneo al gioco, “inaffidabile”, dalle promesse irrealizzabili o comunque giudicate “fantasiose” dagli esperti. E in più lo definiscono spesso addirittura “un rischio per la sicurezza dell’America”. Ma lui risponde su un altro piano, gioca un’altra carta. Adesso promette “25 milioni di nuovi posti di lavoro”, una crescita del 3,5 per cento mediante misure protezionistiche ma anche investimenti e taglio delle tasse. Cose che piacciono a quegli americani che si sentono “lasciati indietro”, che hanno conosciuto tempi duri, che si sentono dimenticati e snobbati dalla classe politica. Il loro atteggiamento è stato forse spiegato meglio che da candidati e osservatori americani, da un politico europeo in visita, Nigel Farage nel corso di una breve visita a Trump nel Mississippi. Egli ha paragonato gli sviluppi politici negli Usa a quelli che in Gran Bretagna hanno portato al Brexit: “Una rivolta popolare contro l’economia neoliberale, contro i banchieri responsabili del crac del 2008, contro l’immigrazione incontrollata” e soprattutto “il controllo da parte di forze impersonali”. I motivi che provocarono l’impetuosa ascesa di Bernie Sanders nella seconda fase delle primarie (un giocatore d’azzardo che osò presentarsi come “socialista”) e che sorpresero l’establishment e la “macchina” del Partito democratico. Improbabile quasi quanto una sua ripetizione sotto l’egida di un repubblicano conservatore come Donald Trump si presenta.