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Contro la repubblica fondata sulle procure

(Pubblichiamo questo editoriale del direttore del Foglio che fa il punto su una nazione malata).

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di Claudio Cerasa

Se l'Italia non fosse una democrazia malata, nella quale il popolo si è ormai rassegnato a esercitare la sua sovranità solo nelle forme e nei limiti decisi dalle procure italiane e in cui i partiti si sono ormai abituati a combattere battaglie politiche solo a colpi di veline giudiziarie, oggi dovrebbe succedere una serie di cose che non accadrà.
Silvio Berlusconi dovrebbe denunciare l'assalto giudiziario contro Matteo Renzi. Andrea Orlando dovrebbe mandare ispettori nelle procure di Roma e di Napoli. I talk-show dovrebbero fare una campagna coraggiosa contro un reato folle chiamato traffico di influenze e dovrebbero raccontare come sia possibile che i finanziamenti leciti di privati versati alla politica (diventati fondamentali nell'epoca dell'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti) vengano trasformati in finanziamenti moralmente illeciti.
Matteo Renzi dovrebbe mettere in luce l'assassinio politico (copyright Fillon) che il circo mediatico-giudiziario sta tentando di portare avanti nei suoi confronti. I giornali dovrebbero chiedersi se non ci siano tracce di un pregiudizio politico nella sentenza di primo grado ricevuta ieri da Denis Verdini per bancarotta e truffa ai danni dello stato che come anni di condanna (9, la richiesta dei pm era 11) supera quelli ricevuti da Michele Misseri nell'ambito del processo per Sarah Scazzi per occultamento di cadavere e inquinamento delle prove (8 anni) e quelli ricevuti da Abderrahim Moutaharrik, il campione di kickboxing arrestato nell'aprile 2016, condannato a sei anni di carcere con l'accusa di terrorismo internazionale.
La stampa libera, infine, piuttosto che trasformare ogni indagine in una sentenza di condanna, dovrebbe forse interrogarsi su come sia possibile considerare condannato fino a prova contraria un uomo indagato per essere stato identificato come possibile destinatario di una somma di denaro mai ricevuta in base a una lettera T trovata in un pizzino strappato in mille pezzi e ricostruito in laboratorio mettendo insieme scarti della nettezza urbana con la stessa tecnica investigativa, si apprende da fonti giudiziarie, "impiegata dal Fbi per incastrare il boss di New York Joe Bonanno".
Un arresto è sempre un arresto, anche se non tutti gli arrestati sono sempre coccolati come il plurilaureato Raffaele Marra, e una sentenza di condanna è sempre una sentenza di condanna, anche se i gradi di giudizio sono tre e anche se si è sempre innocenti fino a sentenza definitiva - e forse questo dovrebbe valere anche per Alfredo Romeo, che anni fa passò 79 giorni a Poggioreale e che dopo essere stato condannato in primo e secondo grado, in una vicenda che ricorda quella in cui si ritrova immischiato oggi (sia all'epoca sia oggi finito in una storia relativa ad appalti mai vinti, nel 2008 l'appalto per il quale finì in galera nemmeno partì) venne assolto in Cassazione, guadagnandosi tempo dopo, il 16 maggio del 2015, persino una poderosa e riparatrice intervista sul Fatto con Marco Travaglio.
Ai giornali, in realtà, le inchieste interessano fino a un certo punto. Interessano solo nella misura in cui un'inchiesta, un'indagine, con il suo pizzino strappato trovato in una discarica, se curvata nel modo giusto può aiutare a togliere definitivamente di mezzo lui, ovviamente: l'ex presidente del Consiglio Matteo Renzi. A maggio dello scorso anno questo giornale pubblicò in prima pagina uno schema che raffigurava un disegno della tensione che fotografava il tentativo progressivo portato avanti da molte procure italiane - en marche! - di avvicinarsi all'ex premier per via giudiziaria (prima ancora che Luca Lotti venisse indagato per favoreggiamento e rivelazione di segreto istruttorio, tipologia di reato quest'ultima utilizzata spesso contro i politici e mai contro i magistrati che passano notizie agli amici giornalisti).
Basterebbe ricordare l'inchiesta su Tempa Rossa, scoppiata a pochi giorni dal referendum sulle trivelle, di cui oggi si sono perse le tracce. Basterebbe ricordare l'indagine aperta dalla procura di Firenze con un fascicolo senza indagati sulla famosa casa prestata a Renzi. Basterebbe ricordare il modo inusuale con cui il ministro Boschi venne ascoltato ancora su Tempa Rossa. Basterebbe ricordare l'iscrizione di Magistratura democratica al comitato del No al referendum costituzionale. Basterebbe ricordare l'altra indagine su papà Renzi, bancarotta, terminata con una richiesta di archiviazione da parte dei pm (richiesta accolta dai giudici della procura di Genova dopo dieci mesi di incomprensibile graticola).
Servirebbe prudenza, ma forse non solo quella. Servirebbe una grande battaglia contro la tendenza odiosa del sistema italiano a fare sistematicamente il contrario di quello che dovrebbe fare in un paese governato dalle procure. In cui ogni anno lo stato paga 42 milioni di euro per errori giudiziari e ingiusta detenzione e in cui ogni anno arriva una denuncia dell'Europa sull'eccessiva politicizzazione del nostro sistema giudiziario che mette a rischio costantemente "i principi fondamentali di indipendenza e imparzialità della magistratura", come ricordato poche settimane fa dal Groupe d'Etats contre la Corruption gestito dal Consiglio d'Europa. Nulla di tutto questo accade, nulla di tutto questo accadrà oggi.
Lo sputtanamento sarà senza fine, i pizzini verranno scambiati per prove provate. Le condanne verranno utilizzate come strumenti per combattere per via giudiziaria quelle che dovrebbero essere battaglie politiche. I giornali specializzati nel costruire nebbia continueranno a chiedere ai politici infilati nella nebbia (Rep. di ieri) di uscire dalla nebbia e nessuno cercherà invece di raccontare le cose per quello che sono, rispettando quello che prevede la Costituzione più bella del mondo all'articolo 27 e ricordando che l'Italia vive in una condizione drammatica perfettamente descritta dal professor Sabino Cassese in un capitolo del suo ultimo libro pubblicato oggi sul Foglio: "La situazione italiana della giustizia civile e di quella penale è drammatica.
Le procure debordano sia invadendo campi a loro estranei, sia utilizzando - attraverso l'uso distorto di intercettazioni e custodia cautelare - procedure poco produttive sul piano processuale ma molto efficaci nel circuito politico e dell'opinione pubblica. Gli effetti principali di questi interventi si producono nel campo della politica e dell'amministrazione. Sulla prima, l'azione accusatoria ha l'effetto di stimolare la sfiducia nell'elettorato. Sulla seconda ha un effetto di spiazzamento, nel senso che in questo modo i decisori di ultima istanza nelle scelte più importanti riguardanti problemi sociali, ambientali, di sviluppo urbanistico diventano le procure, in luogo degli organi rappresentativi e degli uffici burocratici.
Un ultimo effetto di questo processo vizioso è quello per cui i procuratori sono proiettati nello spazio pubblico, dove sono ascoltati più per i poteri di cui dispongono che per quello che pensano, e divengono i naturali candidati alle posizioni di vertice di quella politica dalla quale dovrebbero restare distanti per dovere d'ufficio.
I conflitti con il corpo politico, nonostante la mancata modernizzazione del sistema giudiziario in Italia, sono numerosi: molti fisiologici, perché la giustizia costituisce un naturale limite della politica; alcuni patologici, perché la giustizia non risponde al compito fondamentale che è chiamata a svolgere (giustizia ritardata è giustizia negata)". In una democrazia malata, in cui il popolo si è rassegnato a esercitare la sua sovranità nelle forme e nei limiti decisi delle procure italiane, i partiti e i giornali liberi invece che alimentare il circo dovrebbero sforzarsi di fare il contrario di quello che faranno oggi: combattere battaglie politiche a colpi orrendi di veline giudiziarie.